Dono e abbondanza (2/7/2023) - Perseo 3
Dell’esperienza al festival Goa, del nostro vissuto alla grande festa per il solstizio d’estate, scriverò in seguito. Basti per ora sapere che non citerò il nome del monte dove il festival si è svolto poiché non riteniamo opportuno, in questo caso, associare la sincerità del racconto a un luogo geografico determinato. Dirò anche, e basterà per ora, che il nostro contatto, il ragazzo che ci aveva invitato dipingendo il festival come un luogo di convivenza delle più differenti tendenze e scelte di vita, un luogo di coesistenza e armonia tra famiglie con bambini e appassionati di musica elettronica, beh … è stato arrestato pochi giorni prima del solstizio d’estate.
Basti sapere dunque, per seguirci in questo terzo episodio del viaggio di Perseo, che comincerò a raccontare da un punto nel tempo che si colloca poco oltre il solstizio d’estate e che è, quel momento, un momento per noi di fuga, di stanchezza, di calura e febbre, un momento in cui (ci vedete?) stiamo arrampicando lentamente un monte che sta sopra Forlì, salendo verso le foreste del Casentino, alla ricerca di consolazione e di amici. Pensiamo tutti e tre, ce lo siamo detto, che prima di affrontare la Toscana e la bolgia di Pistoia, sia necessaria rigenerazione: un po’ di acqua benedetta. Un po’ di Divina commedia. Il furgone sale lento per i tornanti e dunque prima di superare il paesello di San Benedetto in Alpe andando verso il passo del Muraglione, lo costringo (sono io l’aguzzino) per quegli strettissimi tornanti che salgono a destra, verso Marradi, una strada da pazzi che il Duca non gradisce affatto e che riesce a seguire solo perché, più che un Duca, è un pazientissimo mulo.
Al quinto chilometro circa lungo l’angusta via, sotto chiome ombrose d’alti alberi, c’è un precario parcheggio, un bordo strada dove cinque o sei macchine riescono volendo ad accostare. Prelude, quel bordo, a una ripa e a qualche tavolino di legno, a un’area picnic e di fronte, dall’altro lato della strada, in piena curva, c’è un punto fuoco dove si può cucinare liberamente. Accanto è la fontana. Davanti alla fontana e dunque in piena curva e in mezzo alla strada, quando arriviamo noi, giocano a schizzarsi tre bambini biondissimi e molto piccoli. La maggiore, scopriremo presto, ha cinque anni. Parcheggiamo. Quando scendiamo dal furgone e ci avviciniamo, però, due di loro, i più piccoli, corrono via spaventati, si vanno a nascondere nel fitto del bosco mentre la più grande resta ferma davanti alla fontana e ci fissa attonita, attenta, tutta zuppa d’acqua. Ciao, la salutiamo. Non risponde. Risponde invece suo padre. Ha un pesante accento inglese e la faccia sconvolta. Non sappiamo se dal caldo o dal nostro arrivo - e non fa così tanto caldo, ce ne stiamo accorgendo adesso, mentre scende nei nervi il carico di stress da viaggio e da Goa party. Ci saluta preventivamente, come per una regola d’ingaggio, mentre chiama i suoi due più piccoli. Sta venendo fuori dal bosco anche lui, da un altro punto rispetto a quello dove sono scomparsi i due, e ha un mazzo di equiseto in mano e un sacchetto di carta gonfio nell’altra mano. A terra, accanto alla figlia rimasta, stanno due taniche piene di acqua. L’uomo ci guarda, guarda la piccola e le taniche, si scusa e chiama ancora i due fuggiaschi. Ci dice che dobbiamo perdonarli, hanno paura degli estranei: non vedono molta gente. Rimprovera la bimba, le dice che doveva limitarsi a tenere i fratelli e a riempire le taniche e non continuare a sprecare l’acqua che è un bene così prezioso. Il rimprovero lo muove in un pessimo italiano. Rivolgendosi ai figli, sarà una delle pochissime cose che gli sentirò dire nella nostra lingua.
Guardo lo zampillo che fuoriesce dalla fontana. È un rivolo. La piccola chiude il rubinetto mentre io penso che quando ero bimbo giocavo a schizzarmi con i miei amici prendendo l’acqua che scorreva copiosa. Era bellissimo. E penso anche che da grande, questa bimba, racconterà di quando da piccola giocava con l’acqua, la quale scendeva ancora in rivoli da alcune fontane libere. E dirà anche lei dei suoi tempi perduti e di quei giochi che erano bellissimi. Penso anche a Giuseppe, il figlio di Marco, uno dei nostri autori. Penso a cosa gli racconterei di questo viaggio, di questo mondo, se potessi raccontargli. Di cosa potrei dirgli di quella volta che ho pensato a lui vedendo questa bimba rimproverata perché gioca con l’acqua, di quale scusa potrei addurre per la mia insufficienza, per aver conservato così poca gioia, così poca libertà alle loro vite. E del perché ho pensato proprio a lui. E quindi sono lì, tra il catastrofismo e la malinconia, e mi accorgo della madre solo in ritardo, quando lei, una donna alta con i capelli lunghi e grigi, la carnagione scura, il naso aquilino, scalza e con una grande tunica bianca indosso, è a due passi da Beba. Sorride, cavallinamente, e l’abbraccia. Ciao, le dice Beba. Si scambiano alcune frasi in inglese e qualche sorriso, diverse occhiate, cose tra donne le quali cose poi Beba ci traduce. Siamo invitati a casa loro.
È così che finiamo in fondo al fosso di Marradi. Ci finiamo percorrendo una strada bianca che, mentre seguo il Cangù dei nostri ospiti, non so davvero se riuscirò a percorrere a rovescio. Mi sto quasi rassegnando al fatto che terminerò i miei giorni qui, tra infinite zanzare, tafani, pappataci, zecche o che comunque sarà il Duca a finirci i suoi e io dovrò tornare su a piedi, quando ci fanno segno che siamo arrivati e dunque ve la faccio breve: loro, i due nostri ospiti genitori delle tre bimbe, hanno comperato qui in fondo un ettaro di querce. Vivono in un rudere che Ivan giura verrà giù al trentesimo starnuto cominciando a contare da adesso uccidendo loro e il cavallo. Hanno un cavallo e qualche gallina - il pollaio è meglio della loro casa. Mangiano le uova solo se le galline non sono in cova. E per il resto fanno il bagno al fosso di Marradi, si nutrono solo di quel che hanno intorno e crescono i loro figli tenendoli lontani da tutto in nome di una catastrofe planetaria alla quale li stanno preparando. Usano internet, certo, ma consapevolmente. E lo usano solo loro due, i genitori, di nascosto dai figli. Lo troviamo strano?
Siamo a tavola mangiando un’ottima insalata e gustando una proteica bevanda – un estratto di ghiande – e io guardo disperatamente all’area di manovra angusta della quale mi toccherà approfittare a breve se vorrò salvarmi. Lei, la madre, intanto parla con il cavallo e il cavallo le chiede un riparo dalle mosche che lei gli promette. Il cavallo, un destriero bianco, sta alle spalle della donna la quale appare davvero bella nel suo ambiente. Lì seduta, sembra una matriarca che consiglia la sua sterminata famiglia alla quale naturalmente apparteniamo. Ci chiede cosa cerchiamo. Ci dice che dobbiamo immaginare quel che vogliamo, e quel che vogliamo si materializzerà. Il cavallo mi fa l’occhiolino. Guarda al furgone, alla ripa, e mi fa l’occhiolino. O almeno così mi sembra.
È a questa maniera che rimediamo un invito a un nuovo festival. Ossia, è in conseguenza del racconto che Beba fa del festival al quale abbiamo partecipato di recente. Il festival al quale ci invitano è un festival differente. Partecipano tutte le “realtà alternative” dell’area. Ed è un festival incentrato sul Dono. E anzi sul dono, sull’abbondanza e sull’inclusione. Vogliamo essere inclusi? L’inclusione è parte fondamentale del meccanismo di potere tenuto a battesimo da Aristotele, ma mi sembra vano tentare di spiegarlo in italiano a questi due inglesi e a chiunque altro. Se volete capire il sistema nel quale vivete da 25 secoli almeno, studiatevi Aristotele da soli.
Chiediamo se potremo montare il nostro banchetto al loro festival, ma chiaramente questo sarà impossibile per via del fatto che ci sarà sì un mercatino, ma sarà un mercato del dono. Ciò che c’è in abbondanza, sarà donato. Ci sarà anche una teorica dell’economia del dono! E a proposito dei libri, ecco: uno degli alternativi dell’area porterà appunto in dono due o tre centinaia di volumi presi da quelli che ha appena prelevato da casa di uno zio defunto. Questo zio defunto, pare avesse in casa circa settemila volumi. L’alternativo ne porterà in dono solo 2 o 300 perché gli altri sono ancora tutti negli scatoloni. E anzi se amiamo tanto i libri, e vogliamo aiutarlo a catalogarli … Avanzo oziosamente l’idea di donarli a una biblioteca e quando Beba traduce quel che ho detto, su insistenza della madre lo traduce, lei si mette a ridere fragorosamente e mi racconta in un pessimo italiano che un’altra alternativa del loro gruppo è venuta lì in uno di quei paesi sperduti portandosi dietro diecimila volumi e con il preciso intento di aprire una biblioteca tutta sua e che è successo dieci anni fa e che adesso, del lascito di cui parlavamo poco prima, lei non vuole saperne niente. Né lei, né le altre biblioteche della zona.
Questo è un fatto curioso, penso. Ivan Illich sostiene che il sistema industriale è basato sulla scarsità. Ed è vero: è la scarsità che crea concorrenza e fa funzionare il sistema. Trovo altresì interessante la sua analisi a proposito della sessualizzazione della società, ma anche qui: andatevi a leggere Illich per conto vostro. Quel che volevo dire è che trovo interessante quanto intendono per dono queste persone, ossia lo smaltimento dell’esubero. Trovo interessante come confondano l’esubero con l’abbondanza, la quale si risolverebbe, infine, in una mole di prodotto industriale in eccesso.
Sarà vero solo per i libri o anche per il resto di quanto questi alternativi vorranno portare al loro festival? Sono così tentato dall’accettare l’invito che quasi dimentico il proposito che poco fa nutrivo di scappare via dal fosso di Marradi. Quasi. Perché il cavallo nitrisce e mi guarda implorante con gli occhioni languidi. Con la testa indica la ripa e la strada bianca. O così mi sembra.
Ps
Forse, confacente all’idea che ho io di dono, è più la condivisione di quella frugalità offerta in forma di insalata ed estratto di ghianda. E l’esperienza che io ho dell’abbondanza, è naturale. Riguarda un anno su un tot e si alterna alla siccità. È per questo che ti viene voglia di onorarla festeggiando. Ma tornando al dono, l’idea che ne ho io, è più confacente al mostrarsi che questa famiglia ci ha offerto. O all’idea di sacrificio che i genitori danno curandosi dei figli seppure in questo modo francamente lontano dal mio sentire e dal mio pensare.
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